ARCHEOMAFIE: storia di un fenomeno criminale
- Myriam Rosano
- 11 nov
- Tempo di lettura: 4 min
L’identità di un popolo si costruisce a partire dalla sua eredità culturale e materiale.
Questo è il motivo per il quale l’articolo 9 della nostra Costituzione è inserito tra gli elementi fondamentali e rappresenta un atto rifondativo. È quindi necessario che il bene culturale sia di pubblica fruizione e, di conseguenza, è necessario che la Repubblica, in tutte le sue componenti, ne garantisca la tutela e la valorizzazione. Privare la comunità di un bene culturale significa privarla di parte del proprio passato. Il danno al patrimonio culturale deve essere concepito come un danno all’intera società.
Nel contesto dei danni al patrimonio culturale, si inserisce il grave fenomeno delle archeomafie, vere e proprie organizzazioni di stampo mafioso che si occupano di trafficare reperti e opere d’arte, che costituiscono un guadagno molto elevato, secondo solo al traffico di droga e armi. Illustrare alcuni dei casi più rilevanti, che hanno progressivamente svelato il funzionamento dei traffici illeciti nelle mani delle archeomafie, è il modo migliore per raccontare il fenomeno criminale dell’archeomafia.
La prima storia che deve essere raccontata è probabilmente quella della nascita del termine: siamo nel 1999 quando Legambiente pubblica un dossier dal titolo Archeomafia. Tutto nasce quando, nel ’97, apre una sede di Legambiente a Piazza Armerina, cittadina del territorio ennese presso la quale si trova la Villa romana del Casale, un grande complesso del IV secolo d.C. famoso soprattutto per i suoi mosaici. L’associazione ben presto si trova davanti un contesto molto complesso, in cui la villa è spesso soggetta ad atti vandalici e scavi clandestini sistematici, che vengono attribuiti a organizzazioni criminali. Si sente la necessità di coniare un nuovo termine che esprima il concetto.
Si tratta dell’inizio di una lunga attività di lotta alla criminalità organizzata, che apre alla conoscenza sempre più profonda del fenomeno e di quanto le famiglie mafiose possano essere interessate a questa fetta di commercio di traffico illecito di beni archeologici e culture.
La storia più recente, invece, è l’operazione Teseo, il più grande recupero della storia. L’inchiesta inizia nel 2010 dal ritrovamento di un frammento di un vaso attico presso un collezionista italiano e, dalle indagini, si scopre che lo stesso frammento era stato fotografato durante uno scavo clandestino. Seguiranno 5 anni di indagini, che si concludono con il sequestro di 5361 reperti, per un valore complessivo di 50 milioni di euro, e lo smantellamento di una rete che collegava i tombaroli di diverse regioni del sud Italia a intermediari del Nord e collezionisti svizzeri.
Per capire come le mafie possano arricchirsi mediante il traffico illecito di opere d’arte, possiamo prendere il caso dei Messina Denaro, che hanno basato la loro ricchezza e il loro prestigio nell’ambiente mafioso proprio sull’arte e in particolare sull’arte antica. A iniziare fu “don Ciccio”, padre di Matteo, un tombarolo attivo nel parco archeologico di Selinunte e che, successivamente, passò a controllare gli scavi clandestini della Sicilia occidentale. Si ricordi, a tal proposito, il pizzino di Matteo Messina Denaro che cita: “con le opere noi ci manteniamo la famiglia”. Matteo prende quindi l’eredità del padre e userà l’arte non solo come merce, ma anche come forma di ricatto allo Stato: i collaboratori di giustizia confermeranno che, nel contesto della seconda trattativa Stato-mafia, si decise di attaccare le città d’arte. Personaggio di spicco, presente sia durante attività di Ciccio Messina Denaro che del figlio Matteo, è Gianfranco Becchina, che aveva il compito di ripulire le provenienze illecite dei reperti e di rivenderli soprattutto a musei esteri.
Lo stesso Gianfranco Becchina è uno dei protagonisti di molte storie di traffici di reperti, che coinvolgono altri trafficanti a lui vicini, come Robin Symes - di cui si parlerà a breve- e Giacomo Medici, oltre che Marion True, curatrice del Getty Museum di Malibù dal 1986 al 2005 e a cui è collegata la vicenda della Dea di Morgantina, una delle più significative nella lotta alle archomafie, nonché delle più interessanti per comprendere quali strumenti si possono mettere in campo per la lotta e il contrasto al fenomeno.
Ecco cosa accadde.
Nel 1986, Renzo Canavesi, un tabaccaio di Lugano, ottiene dal nulla una statua in pietra calcarea di 2,20 m raffigurante una divinità femminile, che rivende a un noto antiquario londinese, Robin Symes. Questi presto vide l’opportunità di guadagnare, rivendendola a un museo americano. La propose quindi al Paul Getty Museum di Malibù, dove rimarrà fino al 2011. Nel 1988, però, l’ex direttore del Metropolitan Museum di New York, ormai fermo accusatore dei metodi con cui i musei statunitensi si appropriavano dei reperti, dichiara di sapere che la statua provenisse da uno scavo abusivo a Morgantina, nel territorio ennese. A questo punto partono le indagini, che confermano la provenienza siciliana della statua, ma ancora non si vuole intentare un processo contro il Getty. Tutto cambia nel 2005, quando la Procura di Roma scopre il sistema con cui i musei americani si appropriavano di reperti archeologici e la sentenza definitiva obbliga il Getty a restituire al comune di Aidone la statua. Il processo permette così di identificare la rete che costituisce uno dei sistemi delle archeomafie e il suo modus operandi. Si parte infatti da scavi clandestini in cui vengono prelevati i reperti, affidati poi a ricettatori, come Renzo Canavesi. Da qui i reperti vengono inseriti nel mercato, per finire nelle mani di collezionisti privati e musei. Il caso della Dea di Morgantina non è isolato, ma solo un esempio di un più ampio traffico che, fino al 2005 ha collegato i tombaroli, singoli o guidati dalle famiglie mafiose, ad intermediari che si occupano di ripulire la provenienza. Questo era il compito di personaggi come Symes o come il trafficante italiano Medici, che consegnavano poi le opere ai più importanti musei statunitensi. Il cratere di Eufronio e l’atleta di Fano, entrambi trafficati da Medici e Symes, sono stati recuperati infatti nell’ambito delle stesse indagini che hanno portato al riconoscimento della provenienza della Dea di Morgantina.
Come risulta evidente, si tratta di un sistema ben strutturato di attività criminale. Il nostro Paese ha mostrato di aver compreso la portata del fenomeno, tanto da istituire un Nucleo Operativo Specializzato dei Carabinieri, che ha il compito di contrastare il traffico illecito delle opere d’arte.
Serve però una reale presa di coscienza da parte di tutti: il bene archeologico non appartiene solo ad alcuni, ma è di tutti, come testimonianza di un passato che rappresenta l’identità stessa di un Paese e dei suoi cittadini.












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