Premonizioni socio-economiche della criminalità: familismo amorale e tecnica dello straniamento
- Matteo Pinto
- 30 ott
- Tempo di lettura: 25 min
In un contesto sociale in continua trasformazione, la criminalità non può essere considerata un fenomeno isolato né esclusivamente individuale. Essa si sviluppa e si alimenta in relazione a precise dinamiche socio-economiche e culturali che influenzano profondamente i comportamenti collettivi. Comprendere le radici della devianza significa quindi indagare i meccanismi profondi che regolano i rapporti tra individuo, famiglia e società, e che contribuiscono alla formazione di una mentalità dove la legalità può apparire secondaria rispetto ad altri valori.
Tra le chiavi interpretative più significative si colloca il concetto di familismo amorale, elaborato dal sociologo Edward C. Banfield. Secondo questa prospettiva, in alcune comunità il legame familiare assume un ruolo talmente centrale da oscurare il senso del bene comune e la fiducia nelle istituzioni. L’interesse del proprio nucleo diventa la priorità assoluta, anche a costo di violare le regole condivise. Questo tipo di struttura sociale favorisce l’affermazione di comportamenti opportunistici e, in casi estremi, illegali.
A fianco di questa lettura sociologica, la tecnica dello straniamento, impiegata da Giovanni Verga nel suo realismo narrativo, offre una prospettiva letteraria utile per osservare criticamente la realtà sociale. Attraverso il filtro della narrazione impersonale e dell’adesione al punto di vista dei personaggi, Verga restituisce un'immagine nuda e autentica di contesti segnati da arretratezza, miseria e fatalismo. In questi ambienti, la devianza non appare come un’eccezione, ma come una risposta quasi inevitabile a condizioni di marginalità e isolamento.
Questa introduzione intende proporre un confronto tra due approcci apparentemente distanti – quello sociologico e quello letterario – per avviare una riflessione sulle premesse culturali e strutturali della criminalità. Nei paragrafi che seguono, il concetto di familismo amorale e la tecnica dello straniamento verranno approfonditi come strumenti interpretativi capaci di illuminare, ciascuno a suo modo, le dinamiche attraverso cui la devianza si radica nella società.
UN CONTESTO SOCIO-ECONOMICO OSTILE:
Le organizzazioni criminali rappresentano una parte oscura ma rilevante della storia sociale e politica italiana. Ben prima dell’unificazione del 1861, l’Italia — allora divisa in numerosi Stati e regni — era già segnata dalla presenza di forme primitive di criminalità organizzata. Queste non erano ancora strutturate come le moderne mafie, ma agivano come reti di potere locale capaci di esercitare controllo sul territorio, di influenzare le istituzioni e di imporre la propria autorità laddove lo Stato era assente o debole. Lo stato Borbonico fuori dalle mura partenopee si presentava del tutto incapace di gestire sommosse e rivolte e rappresentò un’occasione unica per le organizzazioni criminali per crescere la propria influenza. Occorre precisare che non esisteva ancora la mafia come organizzazione unitaria, ma si iniziano a formare gruppi clientelari e violenti legati al controllo del territorio. Già prima dell’Unità, questi gruppi erano connessi alla nobiltà e agli amministratori locali, svolgendo funzioni di controllo sociale e ordine pubblico per conto dei potenti. Si creava così un sistema di relazioni clientelari tra agrari, funzionari corrotti e uomini armati, che gettava le basi per il fenomeno mafioso. In alcune aree del regno Borbonico, ad esempio a Napoli, si formò già nel 1842 una struttura criminale ben organizzata, la cosiddetta Società della Umirtà o Bella società Rifurmata [1]. La camorra ottocentesca, a differenza di quella contemporanea si presentava come una organizzazione unita con una struttura molto più articolata: come ci ricorda lo studioso Consiglio, costei era divisa in Società minore e Società maggiore [2]. Nella prima facevano parte i camorristi, che erano i monaci cavalieri dell'umirtà, tra loro eguali, tutti legati da uguali doveri e forniti di uguali diritti. Della seconda, facevano parte due ordini di novizi: i giuvinotte annurate e i picciuotte . All’apice vi era il capintesta, il quale veniva eletto ogni anno, tra i camorristi del rione di Porta Capuana, considerato come il più forte ed illustre. Solo nella seconda metà dell’ottocento il privilegio venne esteso anche al Rione Pendino [3].
I guagliune , doveva presentare la domanda di ammissione per poter accedere all’organizzazione e successivamente a seguito di una serie di prove d’astuzia e malefatte avanzava di grado.
Questi guagliune, provengono principalmente da quartieri poveri e marginali, dove il degrado è descritto quasi come una condizione normale, ritenuta giusta per gente come loro. La giornalista e scrittrice napoletana, Matilde Serao, ci fa una descrizione chiara dell’infanzia di questi ragazzi, specialmente nella sua opera piccole anime:
“Dalla mattina cominciava le sue peregrinazioni. La strada dei Mercanti, lungo budello contorto, era la sua casa, ed ella ne conosceva tutte le viuzze, i vicoli ciechi, gli angiporti paurosi, le botteghe nere, i ruscelli fetidi, i portoncini angusti e bruni, illuminati di una luce fioca e grigia, ” [4]
“Chiedeva l’elemosina, ma non gliela davano spesso. Tutta quella gente affaccendata a guadagnare una dura giornata, bottegai accaniti a imbrogliare i compratori contadini, facchini curvi sotto le balle, serve luride e straccione, non badavano a lei. Qualche galantuomo la prendeva per una piccola ladra e si tastava le tasche, dicendole una parolaccia; qualcuno, anche vestito decentemente, era povero, la guardava e si stringeva nelle spalle” [5]
Attraverso la sua figura, Serao denuncia una criminalità sistemica e invisibile, non fatta di ladri e delinquenti, ma di una società indifferente che tollera lo sfruttamento dei minori. La fioraia non è criminale, ma è una vittima di una rete di degrado sociale, dove i bambini sono abbandonati alla strada, privi di tutela, educazione e affetto.
La condizione della fioraia di Matilde Serao – simbolo di un’infanzia violata dalla miseria e dall’indifferenza sociale – si inserisce perfettamente in un contesto urbano dominato da una struttura criminale pervasiva, come quella della camorra ottocentesca. Sebbene la bambina non sia direttamente coinvolta in atti illeciti, vive in un sistema in cui ogni attività, legale o illegale, è soggetta al controllo capillare della criminalità organizzata.
Nel cuore dei quartieri popolari napoletani, la camorra imponeva tangenti persino ai venditori ambulanti, ai piccoli commercianti e al mercato dei beni di prima necessità. Questo significa che anche il modesto guadagno della fioraia – pochi soldi per pochi fiori – non poteva sfuggire a una logica di sfruttamento e controllo. La bambina, senza saperlo, è già un ingranaggio passivo di un sistema criminale che trae forza proprio dal degrado e dall’abbandono sociale.
In questo senso, il racconto di Serao e la realtà storica della camorra si sovrappongono: la povertà minorile non è solo una tragedia individuale, ma il terreno fertile su cui prospera la criminalità, che trae vantaggio dalla debolezza strutturale dello Stato e dalla disperazione dei più poveri. Il sistema di oppressione a cui sono sottoposti i più deboli crea un circolo vizioso: dalla mancanza di opportunità, il bisogno spinge sia i singoli che le organizzazioni criminali a sfruttare ogni risorsa disponibile, minando ulteriormente il tessuto sociale. Questa interconnessione tra abbandono e controllo illecito evidenzia come il degrado di un singolo individuo possa riflettersi in una dinamica più ampia, dove le istituzioni statali si trovano impotenti a contrastare l'espansione della criminalità. La desolazione e il senso di impotenza che permeano la vita quotidiana dei rioni popolari fanno da terreno privilegiato per l’insediamento di una criminalità che, pur non agendo direttamente sul destino dei bambini, ne sfrutta la fragile condizione economica e sociale a proprio vantaggio. Inoltre, questo quadro generale di dominio illecito sottolinea una realtà storica in cui lo sfruttamento della miseria non era solo un’eccezione, ma una regola organizzata che penetrava fino agli aspetti più intimi e quotidiani della vita napoletana.
Questa analisi intende dunque approfondire le origini pre-unitarie delle organizzazioni criminali, per comprendere come si siano formate, quale ruolo abbiano avuto nel contesto sociale dell’epoca, e come abbiano posto le basi per il loro consolidamento successivo.
Alla luce di questo contesto storico e sociale, risulta evidente come l’emergere delle organizzazioni criminali non sia stato un semplice prodotto del caso o della devianza individuale, ma la conseguenza diretta di una serie di paradigmi strutturali che caratterizzavano l’Italia pre-unitaria. Il vuoto istituzionale, l’inefficienza dello Stato, la presenza di poteri locali radicati, il clientelismo diffuso e l’assenza di una reale mobilità sociale sono solo alcuni dei fattori che hanno creato un terreno fertile per la nascita e l’affermazione delle mafie storiche. Analizzare questi paradigmi significa comprendere come determinate condizioni sociali ed economiche abbiano reso l’organizzazione criminale non solo possibile, ma in certi casi funzionale all’ordine esistente.
Costoro sono quattro [6] :
1. Il paradigma istituzionale
Questo approccio interpreta la mafia come una forma alternativa di potere istituzionale, che si comporta in molti aspetti come uno Stato parallelo. Secondo studiosi come Santi Romano e Carlo Alberto Dalla Chiesa, la mafia non si limita ad agire come una semplice organizzazione criminale, ma esercita un controllo stabile e duraturo sul territorio, imponendo le proprie norme, risolvendo i conflitti interni alla comunità e amministrando “giustizia” con metodi violenti.
In altre parole, là dove lo Stato risulta assente, inadeguato o delegittimato, la mafia si sostituisce ad esso e ne assume alcune funzioni essenziali: la sicurezza, la regolazione dei rapporti sociali, la punizione dei comportamenti ritenuti devianti. Lo studioso Federico Varese ha evidenziato come le mafie si configurino come fornitori di servizi extra-legali, in particolare la protezione. Ma si tratta di una protezione “a pagamento”, offerta in un sistema fondato sull’intimidazione e sull’estorsione, non sulla legittimità democratica.
Questo paradigma è fondamentale per comprendere l’efficacia sociale delle organizzazioni mafiose: esse sopravvivono non solo perché sono violente, ma perché offrono una risposta concreta ai bisogni delle persone in contesti dove lo Stato è assente o inefficace. Si crea così un patto perverso, in cui la mafia viene tollerata (e talvolta sostenuta) dalla popolazione, proprio in virtù delle sue capacità “istituzionali”.
2. Il paradigma economico
Un altro approccio fondamentale è quello che interpreta la mafia come un attore economico. Lo studioso Pino Arlacchi ha proposto il modello della “mafia imprenditrice”, sottolineando come le organizzazioni criminali abbiano gradualmente abbandonato una dimensione esclusivamente locale e si siano trasformate in imprese criminali globali, capaci di operare nei mercati internazionali.
A partire dagli anni ’70, in particolare, le mafie italiane hanno iniziato a investire risorse, energie e strategie nel traffico internazionale di stupefacenti, nel contrabbando, nel riciclaggio di denaro e perfino nella finanza speculativa. In questo contesto, la violenza non è più solo un mezzo per affermare il controllo territoriale, ma diventa uno strumento di concorrenza, volto a eliminare rivali economici, mantenere monopoli e gestire “affari” illegali su vasta scala.
Questo paradigma ci aiuta a comprendere la logica del profitto che anima le organizzazioni criminali: esse si comportano come vere e proprie imprese, seppur illegali, capaci di adattarsi alle regole del mercato, diversificare le attività, corrompere funzionari pubblici e inserirsi anche nel tessuto dell’economia legale attraverso appalti, subappalti e investimenti.
3. Il paradigma olistico
Il paradigma olistico è tra i più complessi e completi. Esso tenta di superare le singole spiegazioni parziali, proponendo una visione integrata che tenga conto degli aspetti sociali, culturali, politici ed economici. Studiosi come Enzo Ciconte e Umberto Santino sostengono che la mafia non può essere compresa se viene isolata dal contesto in cui opera: essa è parte integrante della società in cui nasce e prospera.
Secondo questo modello, le mafie non sono entità esterne o patologiche, ma strutture profondamente radicate nel tessuto sociale. Esse riescono a ottenere consenso e legittimazione grazie a una rete di rapporti personali, legami familiari, clientelismo politico ed economico, controllo delle risorse locali e capacità di offrire “vantaggi” materiali e simbolici alle comunità.
Non a caso, in molte zone del Sud Italia, la mafia è percepita non solo come un problema, ma anche come una presenza “normale”, parte della vita quotidiana. Le mafie si inseriscono nei vuoti dello Stato, ma anche nei legami più profondi della società: sfruttano la cultura dell’onore, il bisogno di protezione, l’assenza di alternative, e costruiscono un sistema di potere trasversale che unisce criminalità, politica, economia e cultura.
4. Paradigma dell’arretratezza:
Secondo questa visione, le organizzazioni mafiose trovano terreno fertile nelle aree economicamente sottosviluppate, caratterizzate da povertà diffusa, basso livello di istruzione, scarso accesso ai servizi pubblici e, soprattutto, una presenza debole o assente dello Stato. In questo contesto, la mafia sarebbe una risposta “naturale” a un vuoto istituzionale, e rappresenterebbe un modo “alternativo” per regolare i rapporti sociali e garantire un certo tipo di ordine.
Pensatori come Sylos Labini e Eric Hobsbawm, due tra i più noti sostenitori di questo paradigma, ritenevano che la mafia fosse un fenomeno residuale, legato a un contesto arcaico, tipico di società pre-moderne. In questa ottica, si pensava che lo sviluppo economico e l’avanzamento della modernità avrebbero portato, prima o poi, alla scomparsa naturale delle mafie. La loro esistenza, quindi, era vista come una deviazione passeggera, destinata a essere superata con il progresso.
Tuttavia, l’evoluzione storica ha smentito questa previsione. Le mafie non sono sparite con l’arrivo della modernità, anzi: si sono adattate, trasformate e rafforzate, diventando protagoniste anche in contesti avanzati dal punto di vista economico e tecnologico. Hanno saputo penetrare nel sistema finanziario, negli appalti pubblici, nell’edilizia, nella politica e persino nella pubblica amministrazione. Le organizzazioni criminali hanno dimostrato una straordinaria capacità di adattamento, passando da una struttura rurale e locale a una dimensione globale, capace di operare su scala internazionale.
Questo dimostra che, pur offrendo spunti interessanti, il paradigma dell’arretratezza non è sufficiente da solo a spiegare il fenomeno mafioso. Le mafie non sono semplicemente il frutto del sottosviluppo, ma sopravvivono e prosperano anche nei contesti avanzati, laddove trovano complicità, opportunità economiche, lacune normative e connivenze politiche. Esse non si limitano ad approfittare della povertà, ma riescono a infiltrarsi anche nel benessere, sfruttando le contraddizioni del sistema capitalista e le debolezze dello Stato di diritto.
Il paradigma dell’arretratezza interpreta il fenomeno mafioso non come un semplice atto criminale, ma come il risultato di profonde carenze strutturali e istituzionali che storicamente hanno caratterizzato il Sud Italia. In un contesto segnato da povertà, disoccupazione, analfabetismo e debolezza dello Stato, la criminalità organizzata si insinua come risposta alternativa ai bisogni di giustizia, sicurezza e controllo sociale. La mafia, quindi, non nasce solo dalla delinquenza, ma trova terreno fertile in un ambiente arretrato, dove lo Stato è percepito come lontano o assente.
In questo quadro sociale, movimenti culturali del secondo ottocento, tra cui il verismo, diventa un mezzo espressivo particolarmente adatto a rappresentare questa realtà. Questa movimento culturale del secondo ottocento, figlia del naturalismo francese, si focalizza principalmente sulle classi popolari, soprattutto del Sud Italia, descritte nella loro quotidianità fatta di povertà, ignoranza, rassegnazione e ingiustizie sociali. I veristi, rinunciando a qualsiasi idealizzazione o giudizio morale, mostrano un mondo dominato dalla fatica, dalla legge del più forte e dall’impossibilità di cambiare il proprio destino.
Autori di spessore come il Verga e Capuano, focalizzano la propria attenzione principalmente sull’Italia postunitaria e per la precisione, la Sicilia, ovvero un ambiente segnato dall’assenza dello Stato, da relazioni di potere oppressive e da una società immobile. Il romanziere, dunque si rivela indispensabile in quanto fornisce ai legislatori e ai politici gli strumenti per dirigere i fenomeni sociali. Le “basse sfere” altro non sono che il punto di partenza dello studio dei meccanismi della società. Il Verismo, fotografando la realtà sociale del loro tempo, restituendo un’immagine cruda e imparziale delle condizioni di vita del popolo, specialmente nel Mezzogiorno, si rivela uno strumento prezioso per comprendere le dinamiche sociali su cui si fonda il paradigma dell’arretratezza e, con esso, le radici profonde del fenomeno mafioso.
Se Verga, con la sua poetica verista, fotografa la realtà rurale segnata da arretratezza e fatalismo, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, nel suo capolavoro Il Gattopardo (1958), sposta l’osservazione sul piano storico e simbolico, raccontando il tramonto dell’aristocrazia siciliana durante il processo di unificazione nazionale. Attraverso la figura del principe Fabrizio Salina e del giovane Tancredi, il romanzo mette in luce il meccanismo del trasformismo, ossia quella strategia di adattamento delle élite che accettano il cambiamento politico solo per perpetuare i propri privilegi.
Celebre è il passo del Tancredi:
Sei pazzo, figlio mio! Andare a mettersi con quella gente! Sono tutti mafiosi e imbroglioni. Un Falconeri dev’essere con noi, per il Re.”“Per il re, certo, ma per quale Re?” Il ragazzo ebbe una delle sue crisi di serietà che lo rendevano impenetrabile e caro.“Se non ci siamo anche noi, quelli ti combinano la repubblica. Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi. Mi sono spiegato?”Abbracciò lo zio un po’ commosso. “Arrivederci a presto. Ritornerò col tricolore.” [7]
In questo dialogo si percepisce una tensione tra la voglia di rinnovamento e la realtà di un sistema che, nonostante le trasformazioni superficiali, rimane immutato nelle sue gerarchie. La frase indica come i personaggi siano consapevoli che, anche se ci sono mutamenti, questi sono funzionali a mantenere il potere di chi già lo detiene, impedendo un reale progresso sociale. Questo immobilismo sociale si riflette nella difficoltà della società di liberarsi dalle tradizioni, dai ruoli e dalle dinamiche che la tengono imprigionata. I mutamenti sono accettati o addirittura promossi solo se servono a preservare lo status quo, impedendo così un’autentica rivoluzione sociale o culturale.È un immobilismo mascherato da rivoluzione, una strategia che consente ai ceti dominanti di perpetuare se stessi, anche in un momento storico di apparente discontinuità come l’Unità d’Italia.
Questa visione disincantata e lucida si colloca in una prospettiva storica ampia, ma la stessa logica di immobilismo sociale, pur in forme diverse, attraversa anche la narrativa di Giovanni Verga.
La letteratura verista mettendo in luce dinamiche di esclusione, marginalità e conflitti sociali che derivano dall’arretratezza economica e dall’inefficacia delle istituzioni statali, mostrano ai propri lettori, l’atteggiamento sudista di rassegnazione che è presente tutt’oggi nella nostra odierna società. Tale rassegnazione[8] può essere interpretata come un meccanismo sociale di adattamento all’impossibilità di riscatto individuale, rafforzando così le disuguaglianze e la mancanza di mobilità sociale. a proposito di ciò, lo studioso Nitti ci mostra come questo concetto sia espressione massima di un meccanismo psicologico e sociale attraverso cui gli individui, vivendo in condizioni di estrema povertà, ingiustizia e oppressione, finiscono per accettare passivamente la propria condizione, rinunciando spesso a qualsiasi forma di protesta o tentativo di cambiamento.
Il Verga, nella sua celebre opera “Rosso Malpelo” mostra in maniera molto chiara ed esaustiva i concetti rappresentati. Quest’opera espone la storia di un ragazzo emarginato e sfruttato nel lavoro in miniera. Malpelo è segnato dalla sua condizione sociale e dal pregiudizio legato ai suoi capelli rossi: “Malpelo era un ragazzo coi capelli rossi; per questo tutti lo evitavano, e nessuno gli parlava.”[9] Questa emarginazione lo rende solo e senza affetti, infatti “non aveva mai conosciuto una carezza, né mai un gesto di bontà.”[10] La sua esistenza è segnata dalla sofferenza quotidiana, un dolore che egli accetta senza protestare: “Il dolore era per lui come un compagno inseparabile” e “non si lamentava mai, né cercava di fuggire.” [11] Malpelo è consapevole della sua sorte: “la sua sorte era segnata, e lui ne era consapevole. [12]”
Questa consapevolezza e la sua accettazione della sofferenza rappresentano la rassegnazione tipica del Verismo, che Verga usa per mostrare la dura realtà delle classi sociali più povere e sfruttate.
La storia di Rosso Malpelo offre uno spaccato potente sulla condizione di abbandono e rassegnazione che caratterizzava molte aree del Mezzogiorno italiano nel passato. Personaggi come Malpelo sembrano intrappolati in un destino immutabile, segnati dalla povertà, dall’isolamento e dalla mancanza di prospettive. Questa situazione non è solo un fatto individuale, ma riflette un contesto sociale più ampio, in cui le istituzioni sono fragili o assenti e lo Stato fatica a esercitare un ruolo di tutela e giustizia.
Proprio in queste condizioni di arretratezza sociale ed economica si crea un terreno fertile per la nascita e lo sviluppo della criminalità organizzata. La mafia e altre forme di potere parallelo trovano terreno favorevole dove lo Stato è inefficace o mancante, riuscendo a conquistare consenso e complicità tra le popolazioni locali. La criminalità, quindi, non è semplicemente la conseguenza della povertà, ma nasce dalla debolezza delle istituzioni e dalla mancanza di uno Stato di diritto forte che possa garantire sicurezza e legalità.
Il racconto di Verga, con la sua rappresentazione cruda e realistica della realtà sociale arretrata e della rassegnazione dei suoi protagonisti, ci aiuta a comprendere questi meccanismi sociali. Attraverso la figura di Malpelo, emerge chiaramente come la devianza e la criminalità trovino origine in contesti di marginalizzazione e privazione di alternative. Questo ci fa riflettere sul fatto che per contrastare fenomeni come la mafia non bastano solo interventi economici, ma è necessario rafforzare le istituzioni e costruire un tessuto sociale in cui la giustizia e la legalità siano concrete e percepite come tali.
In questo racconto emerge, un altro concetto puramente verista e tipico delle realtà rurali e arretrate dell’Italia ottocentesca, ovvero lo straniamento. La tecnica dello straniamento consiste nel distanziare il lettore dal punto di vista dell’autore, presentando i fatti senza commenti o giudizi morali e usando un linguaggio semplice, spesso dialettale, che restituisce la realtà in modo oggettivo e quasi “freddo”. Questo metodo impedisce al lettore di immedesimarsi emotivamente o di cadere in facili sentimenti di pietà, spingendolo invece a osservare la realtà in modo critico e distaccato. Lo straniamento che scaturisce dall'accettazione del punto di vista che domina la realtà oggettiva ha così la funzione di negare i valori, dimostrarne l'impraticabilità in un mondo dominato dal meccanismo brutale della lotta per la vita, che non lascia alcuno spazio ai sentimenti disinteressati. Agli occhi dell'autore ciò che dovrebbe essere strano, insensibilità totale ai valori, finisce per apparire normale. Un chiaro esempio ci viene mostrato nel passo seguente:
“Ma Ranocchio tossiva sempre, e alcune volte sembrava soffocasse; la sera poi non c'era modo di vincere il ribrezzo della febbre, né con sacchi, né coprendolo di paglia, né mettendolo dinanzi alla fiammata. Malpelo se ne stava zitto ed immobile, chino su di lui, colle mani sui ginocchi, fissandolo con quei suoi occhiacci spalancati, quasi volesse fargli il ritratto, e allorché lo udiva gemere sottovoce, e gli vedeva il viso trafelato e l'occhio spento, preciso come quello dell'asino grigio allorché ansava rifinito sotto il carico nel salire la viottola, egli borbottava:- È meglio che tu crepi presto! Se devi soffrire a quel modo, è meglio che tu crepi! E il padrone diceva che Malpelo era capace di schiacciargli il capo, a quel ragazzo, e bisognava sorvegliarlo” [13]
Le sofferenze di Ranocchio non vengono enfatizzate con emozioni forti, ma descritte come parte normale della sua vita, quasi come fatti inevitabili. Questo fa “straniare” il lettore, perché non è invitato a piangere ma a capire la realtà così com’è. a rassegnazione dei personaggi non viene edulcorata o giustificata, ma mostrata nella sua crudezza, mettendo in evidenza l’inevitabilità del destino e le condizioni sociali che lo determinano. Lo straniamento quindi non solo rappresenta la realtà, ma costringe il lettore a riflettere sulle cause strutturali di quella rassegnazione, rendendo più forte la denuncia sociale insita nel Verismo.
In conclusione, lo straniamento diventa uno strumento utile per mettere a nudo le dinamiche sociali tipiche delle zone arretrate, dove lo Stato è debole o assente, dove la povertà non è solo materiale ma anche culturale e istituzionale. È proprio in questi vuoti — come evidenziato dal paradigma dell’arretratezza — che si inseriscono forme di criminalità organizzata, che si presentano come poteri alternativi in grado di offrire regole, protezione e lavoro. Il racconto di Verga, pur non parlando direttamente di mafia, descrive l’ambiente sociale che la rende possibile: un mondo senza giustizia, senza fiducia nello Stato e privo di opportunità, dove l’unico orizzonte è la sopravvivenza. Questa “normalizzazione” del degrado viene messa in evidenza anche dalla giornalista Serao, la quale spiega von sguardo attento e partecipe, le condizioni di estrema povertà, sovraffollamento e degrado dei quartieri popolari di Napoli, denunciando l’inefficienza delle istituzioni e l’indifferenza della classe dirigente:
“Eppure la gente che abita in questi quattro quartieri popolari, senz'aria, senza luce, senza igiene , diguazzando nei ruscelli neri , scavalcando monti d'immondizie, respirando miasmi e bevendo un'acqua corrotta, non è una gente bestiale , fede , selvaggia^ oziosa ; non è tetra nella non è cupa nel vizio , non è collerica line : nella sventura.”[14]
la popolazione dei quartieri popolari napoletani non è naturalmente incline al degrado, ma vi è semplicemente costretta da una condizione storica, sociale ed economica imposta dall’alto. La frase “non è una razza di animali, che si compiace del suo fango” denuncia con forza ogni tentazione di giustificare la miseria con la “natura” o il “carattere” del popolo meridionale. Questa gente mantiene dignità, sensibilità e desiderio di bellezza. Ciò mostra che la miseria è normalizzata nel contesto urbano, ma non è interiorizzata come valore dal popolo stesso.
Quando la miseria viene accettata come condizione permanente, e lo Stato non interviene, si apre lo spazio per poteri alternativi come la criminalità organizzata. La criminalità, in questo senso, non nasce solo dalla povertà, ma dalla rassegnazione strutturale e dalla percezione che nessuna istituzione “alta” abbia davvero interesse a cambiare le cose. È in quel vuoto — ben descritto da Serao — che attecchiscono le forme primitive e poi organizzate di potere criminale. Tale vuoto viene messo in evidenza dalla giornalista proprio nel primo capitolo “Bisogna sventrare Napoli”:
“Efficace la frase. Voi non lo conoscevate, onorevole Depretis, il ventre di Napoli. Avevate torto, poiché voi siete il governo e il governo deve saper tutto….quante femmine disgraziate, diciamo così, vi esistano, e quanti ammoniti siano i loro amanti di cuore; quanti mendichi non possono entrare nelle opere pie e quanti vagabondi dormono in istrada la notte; quanti nullatenenti e quanti commercianti vi siano…Questa altra parte, questo ventre di Napoli, se non lo conosce il governo, chi lo deve conoscere?”[15]
Matilde Serao lancia una denuncia diretta e politica contro l’indifferenza dello Stato nei confronti della miseria urbana. La frase “se non lo conosce il Governo, chi lo deve conoscere?” è una provocazione chiara: la Serao evidenzia come la miseria non solo sia ignorata, ma volutamente rimossa dalla rappresentazione ufficiale. È una condizione sistemica, non accidentale. L’assenza di interventi statali adeguati legittima la presenza di poteri informali, capaci di colmare i vuoti lasciati dalle istituzioni.
La società si presenta come un'entità apparentemente coesa, ma i suoi componenti appaiono fragili, disgregati, spesso privi di legami autentici tra loro. La famiglia è l’unica istituzione che fa giustizia e detta regole. Le regole interne, scavalcano le leggi dello Stato che non pone uguali possibilità a chiunque. Lo stato che dovrebbe essere “rappresentazione della società, organizzata esternamente per proteggere il debole contro il forte”[16] altro non è che “abuso da sanare, parassitismo da sopprimere e strumento di tirannia da distruggere”[17] .
Il passo di Proudhon nella sua celebre opera “Critica della Proprietà e dello Stato” richiama fortemente il paradigma dell’arretratezza citata da Labini e Hobsbawm, se lo Stato risulta assente o debolmente presente in un determinato contesto sociale, di conseguenza emergeranno degli attori che vorranno sostituirsi ad essa. L’assenza di giustizia e uguaglianza, finisce per mantenere e legittimare le disuguaglianze sociali. Quando lo Stato non è sentito come rappresentativo e giusto, i legami sociali si disgregano, lasciando spazio a logiche individualistiche, di gruppo o di clan.
È proprio questa assenza di fiducia nel collettivo, nell’impossibilità di un cambiamento comune o nell’intervento delle istituzioni, a costituire un primo punto di contatto con il familismo amorale, teorizzato da Edward Banfield.
Questo concetto descrive un sistema di valori in cui l'individuo agisce esclusivamente per massimizzare il benessere della propria famiglia nucleare, senza preoccuparsi del bene comune né del rispetto delle norme collettive. Nella sua celebre opera, “le basi morali di una società arretrata” , Banfield analizza la struttura sociale e culturale di un piccolo paese dell’Italia meridionale, da lui chiamato Montegrano (in realtà Chiaromonte, in Basilicata). Attraverso un’indagine sul campo condotta negli anni ’50, Banfield descrive la vita quotidiana, le relazioni familiari, l’organizzazione economica e politica del paese.
L’autore individua un comportamento prevalente tra gli abitanti, basato sul principio di massimizzare il vantaggio immediato della propria famiglia nucleare, con scarso interesse per il bene collettivo. Questo atteggiamento viene definito familismo amorale. Banfield osserva inoltre che la popolazione manifesta sfiducia nelle istituzioni, poca partecipazione civica e relazioni sociali limitate, elementi che, secondo la sua descrizione, caratterizzano la vita di quella comunità.
Per comprendere concretamente il fenomeno del familismo amorale, Banfield riporta nella sua opera, numerosi esempi tratti dalla vita quotidiana di Montegrano, che evidenziano come l’interesse per la famiglia nucleare prevalga nettamente su quello per la collettività:
“quando si chiese loro che cosa avrebbero fatto se uno del paese avesse nascosto una persona colpita da malattia contagiosa, 12 dissero che avrebbero informato il medico (che l'ufficiale sanitario del paese); 8 che non avrebbero fatto niente perché non avessero fiducia nello stato non volevano umiliare la famiglia o apparire ai loro occhi come i cattivi nemici”[18]
la lealtà familiare e il desiderio di protezione personale superano l’obbligo civico, mostrando come il familismo amorale condizioni profondamente le relazioni sociali e la convivenza. Questa dinamica richiama la rappresentazione verista di Verga, che con la tecnica dello straniamento ci mostra la realtà di questi comportamenti senza giudicarli, come se li osservasse da lontano. Quando gli abitanti vengono interrogati su cosa farebbero se qualcuno nascondesse una persona affetta da una malattia contagiosa, una parte risponde che denuncerebbe il caso alle autorità sanitarie. Tuttavia, un numero quasi altrettanto significativo preferisce non fare nulla, motivando questa scelta con la mancanza di fiducia nello Stato e con il timore di danneggiare la famiglia interessata, o di essere considerati "cattivi" agli occhi della comunità. Questa risposta esprime chiaramente come in queste comunità l’interesse familiare abbia la precedenza su qualunque norma collettiva o obbligo civico. Proprio come nel racconto Rosso Malpelo di Verga, dove il protagonista vive una condizione di rassegnazione e isolamento dovuti alle dure circostanze sociali, anche in questo contesto emerge un senso di fatalismo e chiusura familiare che rendono difficile il cambiamento sociale. La diffidenza verso lo Stato e la priorità data alla famiglia creano un terreno fertile per l’arretratezza e per la persistenza di fenomeni come la criminalità organizzata, che sfrutta proprio queste fragilità.
Nel volume, la frase che meglio rispecchia il familismo amorale di Banfield, è il seguente:
“a dire il vero, io non ho trovato mai nessuno pronto a interessarsi al bene comune. Al contrario, io so che c'è una grande invidia per il denaro e il comando. In alcune località dell'Italia meridionale si accusano i signori di essere indifferenti alla miseria dei contadini tutti presi dalle loro animosità”[19]
La seconda frase rafforza e amplia il concetto espresso nella prima, confermando come in molte comunità del Mezzogiorno prevalga una scarsa attenzione al bene collettivo. Qui si sottolinea non solo la mancanza di interesse per il bene comune, ma anche la presenza di invidia, divisioni interne e conflitti che frammentano ulteriormente il tessuto sociale. L’indifferenza dei “signori” verso la sofferenza dei contadini e l’ostilità tra gruppi diversi sono elementi che accentuano la debolezza della comunità e la difficoltà di costruire un senso di solidarietà oltre il ristretto ambito familiare.
Questo quadro si collega strettamente al comportamento descritto nella prima frase, dove la sfiducia nello Stato e la priorità data alla famiglia impediscono l’azione collettiva, e quindi la risoluzione dei problemi sociali. In entrambe emerge una società frammentata, in cui le logiche personali, familiari e di gruppo prevalgono sulle regole e sugli interessi generali. La frammentazione sociale e la diffidenza verso le istituzioni pubbliche creano un terreno fertile per la nascita di poteri informali e di meccanismi di controllo paralleli, come la criminalità organizzata, che sfruttano proprio queste debolezze.
Dunque, Il familismo amorale, descritto da Banfield come la tendenza a privilegiare gli interessi della famiglia nucleare a scapito del bene comune e della fiducia nelle istituzioni, rappresenta una realtà sociale radicata in contesti caratterizzati da arretratezza e frammentazione. Questa dinamica, osservata con uno sguardo distaccato e oggettivo grazie allo straniamento, permette di evidenziare come le relazioni sociali si strutturino attorno a legami familiari chiusi, ostacolando la formazione di un senso di comunità più ampio e coeso. Lo straniamento, infatti, invita a guardare oltre le apparenze e i giudizi morali tradizionali, offrendo uno sguardo analitico sulla complessità delle condizioni sociali che generano sfiducia verso lo Stato e una cultura di isolamento. Questo doppio approccio, letterario e sociologico, è fondamentale per comprendere le radici profonde di fenomeni come la criminalità organizzata, che prosperano proprio in quegli spazi lasciati vuoti dalla mancanza di solidarietà e partecipazione civica. Solo attraverso la consapevolezza critica di queste dinamiche sarà possibile promuovere un cambiamento culturale capace di superare il familismo amorale e rafforzare la coesione sociale.
TRA LETTERATURA, SOCIOLOGIE E CRIMINALITÀ ORGANIZZATA
La comprensione del fenomeno mafioso non può limitarsi a un’analisi superficiale basata esclusivamente su fattori economici o di arretratezza materiale. Piuttosto, è necessario indagare la complessa rete di relazioni sociali, culturali e istituzionali in cui tali fenomeni si radicano e prosperano. In questo senso, la letteratura verista di Giovanni Verga e le ricerche sociologiche di Edward C. Banfield offrono strumenti fondamentali per comprendere le radici culturali e sociali della criminalità organizzata nel Mezzogiorno d’Italia.
Verga, con la sua tecnica dello straniamento, ci pone davanti a una realtà spesso ignorata o banalizzata: quella di un mondo rurale segnato dalla rassegnazione, dall’isolamento e dal familismo amorale. Nei suoi racconti, come Rosso Malpelo, emerge una condizione sociale in cui il singolo individuo appare schiacciato da un destino immutabile, incapace di sfuggire alla chiusura familiare e alla durezza delle circostanze. Lo straniamento permette al lettore di osservare questa realtà con uno sguardo oggettivo e distaccato, quasi a “fotografare” la società così com’è, senza abbellimenti né giudizi morali espliciti. Questa visione ci aiuta a cogliere come la rassegnazione e la frammentazione sociale siano fattori profondi che ostacolano il progresso e l’emancipazione collettiva.
Sul piano sociologico, Banfield approfondisce questo quadro descrivendo il fenomeno del familismo amorale, una forma di organizzazione sociale in cui l’interesse primario è rivolto alla famiglia nucleare, a discapito del bene comune e della fiducia nelle istituzioni pubbliche. Attraverso il suo studio nel paese di Montegrano, Banfield mette in evidenza come questa struttura culturale generi sfiducia verso lo Stato e disgregazione sociale, favorendo comportamenti individualistici e protezionistici. Il familismo amorale, così, non solo impedisce la costruzione di una società coesa, ma crea anche un terreno fertile per la diffusione di poteri informali, come la criminalità organizzata, che si sostituiscono alle istituzioni inefficaci o assenti.
La criminalità organizzata, infatti, non può essere semplicemente interpretata come un prodotto della povertà o dell’arretratezza economica. Essa nasce e si radica laddove le istituzioni pubbliche sono percepite come distanti, inaffidabili o addirittura ostili, e dove le reti familiari e clientelari detengono il vero potere sociale. Questo spiega perché, in contesti di familismo amorale, l’omertà, la diffidenza verso la giustizia e la protezione della famiglia a tutti i costi diventino elementi chiave per la sopravvivenza di queste organizzazioni criminali. Le relazioni basate sulla fiducia e sulla solidarietà, che sono alla base di uno Stato di diritto funzionante, vengono sostituite da rapporti di mutuo interesse e di lealtà esclusiva che escludono la collettività.
Tuttavia, questa interpretazione ha suscitato numerose critiche. In particolare, il sociologo Alessandro Pizzorno, nel saggio Familismo amorale e marginalità storica (1967)[20] contesta a Banfield il riduzionismo culturale della sua analisi. Secondo Pizzorno, la chiusura familistica osservata a Montegrano non è il frutto di un’attitudine morale immutabile, ma il risultato di una condizione di marginalità storica:
«Anche se i Montegranesi facessero tutte quelle cose … ecc., anche se tutto il possibile si facesse … le condizioni di Montegrano praticamente non migliorerebbero. Quindi hanno ragione i Montegranesi a non far niente … perché nessuno è così sciocco da far cose che non servono a niente!»[21]
Secondo Pizzorno, i Montegranesi (o più in generale persone in situazioni analoghe) spesso non fanno nulla perché, razionalmente, sanno che qualunque azione comunitaria avrebbe scarso o nessun impatto: le risorse sono troppo scarse, gli incentivi assenti. Non è che non vogliono, ma che non posso o fanno bene a valutare che non conviene. povertà, isolamento, assenza di infrastrutture e di uno Stato credibile rendevano razionale per gli abitanti concentrarsi sulla propria famiglia, perché nessuna azione collettiva avrebbe avuto effetti concreti. In questo senso, il familismo amorale non va letto come “difetto antropologico”, ma come risposta logica a un contesto ostile. Inoltre il sociologo, dubita che il termine “comunità” debba essere attribuito ai Montegranesi:
«Il termine impreciso è proprio Montegrano. … Montegrano non è una comunità (o è sulla via di non esserlo più), … e anche per questo ritengono che non valga la pena di far qualcosa per Montegrano – in quanto Montegrano.»[22]
le famiglie sono isolate, prive di legami stabili di fiducia, cooperazione o impegno collettivo. In questo contesto, ogni iniziativa volta al bene comune risulta inefficace, perché manca una rete sociale in grado di trasformare gli sforzi individuali in cambiamento condiviso. Non si tratta dunque di un “difetto morale” dei singoli, come sostiene Banfield, ma di un vuoto strutturale della comunità stessa.
Le considerazioni di Pizzorno ci aiutano a comprendere che la diffusione della criminalità organizzata non è legata a una presunta incapacità morale dei meridionali, come talvolta suggerito da Banfield, ma a precise condizioni storiche e strutturali. Laddove lo Stato è assente e il cambiamento collettivo appare impossibile, le persone si chiudono nella famiglia e tollerano poteri alternativi, come le organizzazioni mafiose.
Collegando la letteratura di Verga con le analisi di Banfield, possiamo dunque comprendere come la rappresentazione del mondo contadino arretrato e chiuso sia strettamente connessa alle dinamiche sociali che facilitano la nascita e il radicamento della criminalità organizzata. La rassegnazione, la chiusura familiare e la sfiducia nelle istituzioni si intrecciano per generare un sistema sociale fragile, incapace di opporsi efficacemente a forme di potere parallelo.
Per affrontare e superare questa realtà è necessario, quindi, intervenire su più livelli. Non basta agire solo sul piano economico o repressivo, ma occorre promuovere un cambiamento culturale profondo che coinvolga la mentalità collettiva, incentivando la fiducia nelle istituzioni e la partecipazione civica. Solo rafforzando il senso di comunità e superando il familismo amorale sarà possibile costruire società più giuste e coese, in cui la criminalità organizzata possa essere efficacemente contrastata.
In questo percorso, il contributo della letteratura verista e della sociologia è insostituibile, perché ci offre una chiave di lettura che va oltre i dati superficiali, entrando nel cuore delle dinamiche sociali e culturali. Solo attraverso una comprensione profonda di queste radici potremo sperare di costruire un futuro diverso, in cui lo Stato e la società civile collaborino per il bene comune, liberando le comunità dal peso dell’arretratezza e della criminalità.
BIBLIOGRAFIA
ALBERTO CONSIGLIO, La camorra a Napoli, a cura di Luigi Musella, arte tipografica S. Biagio dei Librai, Napoli,2005.
ROSARIO PATALANO, Capitalismo criminale, Analisi economica del crimine organizzato, G. Giappichelli Editore,Torino, 2020.
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P. -J. PROUDHON, “Critica della Proprietà e dello Stato”, a cura di Gianpietro N. Berti, ELéUTHERA, Manocalzati(AV), 2019.
E. BANFIELD, “le basi morali di una società arretrata” , il mulino , Legodigit, Lavis(TN), 2021.
TOMMASI LAMPEDUSA, Il Gattopardo, Feltrinelli, a cura DI GIOACCHINO LANZA TOMMASI, Stampa nuovo istituto italiano d’arti grafiche(BG).
PIZZORNO, A. (1967). Familismo amorale e marginalità storica, ovvero perché non c’è niente da fare a Montegrano.
[1] ALBERTO CONSIGLIO, La camorra a Napoli, a cura di Luigi Musella, arte tipografica S. Biagio dei Librai, Napoli, pp. 48-49;
[2] ibidem
[3] ibidem
[4] MATILDE SERAO, Piccole anime, freeditorial, 2013, p. 5
[5] Ivi p. 6
[6] ROSARIO PATALANO, Capitalismo criminale, Analisi economica del crimine organizzato, G. Giappichelli Editore,Torino, pp.11- 15
[7] TOMMASI LAMPEDUSA, Il Gattopardo, Feltrinelli, a cura DI GIOACCHINO LANZA TOMMASI, Stampa nuovo istituto italiano d’arti grafiche(BG), p. 43
[9] GIOVANNI VERGA, Vita dei campi, vita-dei-campi.pdf , p. 50;
[10] ibidem;
[11] Ivi p. 52;
[12] ivi p. 54
[13] Ivi p.56;
[14] MATILDE SERAO, Ventre di Napoli” , Fratelli Treves Editori, Milano, 1884, p. 20
[15] Ivi p. 9
[16] P. -J. PROUDHON, “Critica della Proprietà e dello Stato”, a cura di Gianpietro N. Berti, ELéUTHERA, Manocalzati(AV), 2019, p. 75;
[17] ivi p. 79;
[18] E. BANFIELD, “le basi morali di una società arretrata” , il mulino , Legodigit, Lavis(TN), 2021, P. 64
[19] Ivi p. 46
[20] Pizzorno, A. (1967). Familismo amorale e marginalità storica, ovvero perché non c’è niente da fare a Montegrano. Quaderni di Sociologia, 16(1), 41-56.
[21] ibidem
[22] Ibidem












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